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Messico, pandemia e popoli indigeni. Tra quarantene collettive e processioni religiose

Romario Guzmán Montejo si inginocchia e cade sulla strada. Avvicina la mano destra al petto per cercare il dolore che improvvisamente gli ha tolto l’aria; scoprirà che una pallottola della Polizia Municipale di Yajalón gli ha penetrato i polmoni fino a toccargli una vertebra, e che forse non potrà mai più camminare. Romario è frastornato dalle grida, dagli spari, dal sangue che poco a poco colora la sua maglietta. In Chiapas il coronavirus non ha causato solo malati, ma anche feriti da arma da fuoco.

Era il 27 aprile 2020 e da diciassette giorni la pandemia era arrivata in questa zona del Chiapas dove la maggior parte della popolazione è indigena maya chol e maya tseltal. Romario Guzmán Montejo stava protestando con altri abitanti del villaggio Hidalgo Joshil, nel Municipio di Tumbalá, perché da settimane il piccolo ospedale della sua comunità era chiuso. Manifestavano anche contro i “filtri sanitari” delle autorità della vicina Yajalón, dei posti di blocco installati per impedire l’entrata dei forestieri come misura di prevenzione dal coronavirus.
Una decisione che è stata presa da molte comunità indigene messicane: chiudersi nel proprio territorio, stabilire una quarantena collettiva invece che individuale. I primi a farlo sono stati gli zapatisti, che si sono dichiarati in allerta rossa e parallelamente hanno lanciato nel loro territorio una strategia di prevenzione al Covid-19. “Considerando la mancanza di informazione veritiera ed opportuna sulla portata e gravità del contagio, così come l’assenza di un piano reale per affrontare la minaccia, considerato il compromesso zapatista nella nostra lotta per la vita, abbiamo deciso di decretare l’allerta rossa nei nostri villaggi, comunità e quartieri e in tutte le istanze organizzative zapatiste”, scrive l’EZLN in un comunicato del 16 marzo.

Un abitante de San Juan Chamula incontra un medico della “carovana della salute”, organizzata dal governo del Chiapas per arrivare nelle zone indigene isolate e senza ospedali. Foto: Isabel Mateos

Sanità pubblica in Chiapas: problemi strutturali

Nel caso di Yajalón, però, i “filtri sanitari” impedivano alla popolazione che vive nei municipi circostanti di raggiungere il suo ospedale pubblico, che è il più grande della zona.
Roberto N. stava accompagnando un famigliare malato all’ospedale di Yajalón, quando è arrivato all’incrocio dove si trovavano i manifestanti del villaggio di Hidalgo Joshil, poco prima che Romario Guzmán Montejo venisse ferito. Si è messo in fila dietro alle altre macchine senza capire cosa stesse succedendo. Ha sentito le sirene e gli spari, e le pietre hanno iniziato a volare. Improvvisamente è apparso un gruppo di uomini con una maglietta rossa con la bandiera messicana cucita sulla manica, mascherine chirurgiche e bastoni. Li hanno utilizzati per rompere i vetri e il parabrezza della sua auto.
Era il Grupo Táctico, un gruppo di tipo paramilitare che faceva il lavoro sporco per il sindaco di Yajalón, Juan Manuel Utrilla, e che è stato smantellato all’inizio di giugno dopo essere stato accusato di sequestro e omicidio di un commerciante.
Se il Grupo Táctico avesse permesso a Roberto N. di raggiungere l’Hospital General de Yajalón, avrebbe trovato una struttura che ha iniziato a operare mesi dopo il taglio del nastro realizzato in pompa magna dall’ex governatore dello Stato del Chiapas, Manuel Velasco Coello, con interi reparti che non sono mai stati aperti e con 220 lavoratori al posto dei 638 che sarebbero necessari. All’inizio di maggio, il sindaco di Yajalón aveva annunciato l’apertura di una “clinica Covid” in questa che è una delle zone indigene con il maggior numero di casi di coronavirus del Chiapas, ma la struttura non è stata mai inaugurata: non ci sono gasometri clinici e mancano i medici specialisti.
I primi pazienti con sintomi di Covid-19 sono arrivati a Yajalón all’inizio di aprile. Medici e infermieri hanno inviato al Ministero della Sanità chiapaneco una lettera in cui esigevano l’indispensabile: gel antibatterico, guanti, sapone, cloro, alcool, mascherine. Non hanno ottenuto risposta. Ne hanno scritta un’altra e un’altra ancora. Poco a poco hanno iniziato a ricevere alcune cose, ma non abbastanza da impedire a 10 persone tra medici e infermieri di Yajalón di risultare positivi al coronavirus.
In mancanza della “clinica Covid”, il personale medico ha deciso di utilizzare uno dei reparti inaugurati nel 2018 e mai aperti per isolare i possibili casi di coronavirus e stabilizzarli. Un membro del Sindicato Nacional de Trabajadores de Salud (SNTS) di Yajalón – di cui non diremo il nome perché vari suoi colleghi hanno sofferto minacce di licenziamento per aver fatto denunce pubbliche – afferma che in questa zona molte persone con sintomi di Covid-19 non si muovono dai loro villaggi, non fanno il tampone e non vengono contabilizzati dalle statistiche, e che chi arriva all’Hospital General normalmente è già in condizioni molto gravi. Se l’esito del tampone di questi pazienti è positivo, vengono trasferiti alle “cliniche Covid” delle città di Ocosingo, San Cristóbal de Las Casas e Tuxtla Gutiérrez, che si trovano fino a sei ore di una strada piena di curve e dossi da Yajalón.
“Non abbiamo soldi per pagare la benzina delle ambulanze e siamo costretti a chiedere ai pazienti di coprire i costi per farsi trasferire alla clinica Covid”, afferma il membro del Sindicato Nacional de Trabajadores de Salud in un’intervista telefonica. “In questa regione il 90% della popolazione vive in situazione di povertà e non ha soldi per farlo. Molti ci hanno detto che se devono morire preferiscono farlo in casa loro, e se ne tornano al proprio villaggio”.

Festa della comunità di Chilil, Chiapas, nel giorno di Pasqua, in piena pandemia. Foto: Isabel Mateos


Secondo il Ministero della Sanità, tra il 28 febbraio e il 15 giugno in Messico 1760 indigeni sono risultati positivi al Covid-19 e 327 sono morti. Dati ufficiali mostrano che a causa della marginalizzazione e della discriminazione strutturale in cui vivono da secoli, gli indigeni hanno il 70% in più di possibilità di morire a causa del coronavirus rispetto a una persona non indigena.

Processioni e proteste

Esistono regioni indigene che sono entrate in quarantena collettiva e altre in cui si continuano a organizzare eventi di massa. Nel paese maya tsotsil di San Juan Chamula, migliaia di persone hanno partecipato alla Via Crucis del Venerdì Santo, San Juan Cancuc non ha rinunciato alla sua festa patronale e nella settimana di Pasqua a Venustiano Carranza si è celebrata una processione con 3 mila persone che chiedevano al Signore del Pozzo di proteggerli dalla pandemia, come si dice abbia fatto nel 1882 con la peste.
La difficoltà delle autorità nel comunicare con la popolazione indigena riguardo alle caratteristiche del coronavirus e ai suoi rischi, aggravata dalla sfiducia che i popoli originari hanno nelle istituzioni che da cinquecento anni li discrimina e inganna, ha avuto conseguenze preoccupanti a Venustiano Carranza e in altri paesi indigeni.
Incitati da catene di Whatsapp e messaggi che giravano su Facebook, in cui si affermava che il coronavirus non esiste e che un drone del sindaco spargeva una polvere che causava forti danni ai polmoni, a fine maggio gli abitanti di Venustiano Carranza sono scesi per strada per protestare contro il sindaco, realizzando saccheggi e appiccando fuoco alla sua casa. 

Un’ambulanza e un ospedale comunitario distrutti durante le proteste per le fumigazioni contro la dengue a Las Rosas, Chiapas. Foto: Isabel Mateos

Episodi simili sono successi in altri paesi indigeni come Las Rosas, dove la popolazione ha bruciato un’ambulanza e rotto i vetri dell’ambulatorio quando le autorità hanno realizzato fumigazioni contro la dengue. Secondo una catena di Whatsapp, le fumigazioni erano in realtà finalizzate a spargere il coronavirus nella loro comunità.

Articolo pubblicato da Arivista nel luglio-agosto 2020.

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