Sul virus abbiamo smesso di scherzare
Da un po’ di tempo non sentivo Luigi, un amico di Milano, quando ho ricevuto il suo messaggio vocale. Era il 28 febbraio ed ero in Messico, dove vivo. Luigi mi raccontava che negli aerei in cui fa lo steward non c’erano quasi più passeggeri e che l’ipocondria di suo marito era peggiorata, ora che era “legittimata dallo Stato”. Si lamentava della “psicosi totale per il corona virus” e della chiusura del bar dove si faceva la sua birretta serale. La settimana dopo le restrizioni si sono allentate, e Luigi e i suoi amici hanno celebrato un “aperi-virus”. Ho riso tantissimo.
Era facile scherzare sul virus in quei giorni che sembrano così lontani. Le persone positive al Covid19 in Italia erano 888, i morti 21 e non vedevamo di che preoccuparci. Le immagini di Wuhan sembravano venire da un altro mondo ed eravamo sicuri che in Europa sarebbe andata diversamente. Adesso mi chiedo il perché di tanta ingenuità. Avrà a che vedere con il senso di superiorità europeo? O è una specie di strategia di sopravvivenza sviluppata automaticamente dal nostro cervello?
Presto io e Luigi abbiamo smesso di scherzare sul virus; ora nei suoi messaggi vocali mi racconta di mammiferi australiani che si sono estinti migliaia di anni fa, tema a cui si sta dedicando con grande passione durante il suo periodo di reclusione.
Quando il governo italiano ha deciso di chiudere in casa tutta la popolazione, inaugurando l’ondata mondiale di quarantene, ho iniziato a preoccuparmi seriamente per la mia famiglia e i miei amici, ma non ho pensato che il corona virus avrebbe potuto cambiare la mia vita a San Cristóbal de Las Casas, la città messicana in cui vivo. Sono stata di nuovo ingenua.
Io e le mie amiche avevamo appena partecipato alla manifestazione dell’8 marzo e sentivamo che nulla ci avrebbe potute fermare. Il 14 marzo siamo andate in un “centro botanero”, un ristorante spartano con piscina di Tuxtla Gutiérrez, la capitale dello Stato del Chiapas che si trova a un’ora da casa mia. C’erano 36 gradi. Ci siamo fatte il bagno, abbiamo mangiato gamberi e bevuto birra a bordo piscina in costume da bagno. È stata una giornata bellissima, ma non riuscivamo a smettere di parlare del coronavirus.
Quel giorno ho iniziato a fare caso ai piccoli gesti: ho smezzato il gelato con un’amica ma ho voluto un cucchiaio tutto per me, mi sono chiesta se fosse stato prudente tuffarmi nella piscina in cui dei bimbetti non smettevano di urlare e, con la scusa di aver mangiato i gamberi, mi sono lavata le mani un sacco di volte. Prima di salire in macchina, con le miei amiche ci siamo strette in un abbraccio collettivo che ricordo come un gran regalo del mio ultimo giorno di “vita normale”; forse intuivamo che lo sarebbe stato.
La mattina dopo ho raccontato ai miei vicini quello che stava succedendo in Italia, ho scritto ad un’amica di Città del Messico per dirle di non prendere più la metro e mi sono chiusa in casa.
Il governo messicano non ha mai dichiarato la quarantena obbligatoria, ma non fa che ripetere per radio e televisioni di non uscire di casa. Quelli che possono – a San Cristóbal de Las Casas non siamo tanti, visto che la metà della popolazione vive sotto la soglia di povertà e non può telelavorare – escono poco o niente, fanno riunioni su Zoom e si salutano battendo i gomiti. Per strada c’è sempre meno gente, e il capo del mio vicino che lavora in un hotel gli ha imposto di andare in ferie durante le vacanze di Pasqua.
A volte penso che sto esagerando e che un giorno mi sembrerà ridicolo essermi preoccupata tanto. Mi convinco che in Messico abbiamo iniziato a prendere misure di distanziamento sociale in tempo e che riusciremo a diminuire la velocità di trasmissione del virus. Magari ci ammaleremo tutti ma lo faremo poco a poco, e vinceremo la nostra battaglia contro la curva epidemica.
Altre volte mi vince il pessimismo. Penso nell’orribile stato del sistema sanitario messicano e che nell’ospedale pubblico di San Cristóbal de Las Casas ci sono solo 5 respiratori. Confesso che in una di queste crisi di pessimismo sono arrivata a pensare che il corona virus potrebbe uccidere tutti gli esseri umani del pianeta con più di 60 anni, e che rimarremo noi, persi e senza memoria.
È a una signora anziana e un po’ freakettona che mi rivolgo in questi momenti d’incertezza. “Lo abbiamo già vissuto nel 1982, quando è esploso il vulcano Chichonal: San Cristóbal si è riempita di cenere e il cielo era così scuro che per un giorno intero sembrava fosse notte. Pareva la fine del mondo”, m’ha detto poca fa. “Ero qui nel 1994, quando l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) ha occupato la città e pensavamo che ci avrebbero tolto tutto; sono sopravvissuta all’epidemia della febbre suina del 2009 e al terremoto di 8,2 gradi del 2017; spero di sopravvivere anche a questa”.
Questo testo è stato pubblicato nel libro “Ai tempi del virus. Cento firme tra sentimenti e realtà”, edito da All Around