La battaglia di Cherán
Cherán è un paese di circa ventimila anime adagiato sulle montagne dello stato di Michoacán, nel centro del Messico. Si trova a più di duemila metri sul livello del mare ed è circondato da boschi che, negli ultimi anni, si sono andati assottigliando.
Gli abitanti di Cherán sono indigeni purépechas che, come tutte le nazioni indigene d’America, hanno un rapporto speciale ed intimo con quella che chiamano Pacha Mama, la Madre Terra. I nativi americani comprendono in modo spirituale la connessione presente tra la natura e gli esseri umani, relazione difficile da afferrare per la nostra concezione giudaico-cristiana, secondo cui solo gli essere umani hanno un’anima. Per i purépechas, al contrario, i boschi e le fonti d’acqua sono vivi e sacri, e vanno pertanto amati e difesi.
Da tempo i talamontes, come si definiscono i tagliaboschi illegali, avevano preso di mira le foreste che circondano Cherán. Le elezioni municipali del 2007 crearono una spaccatura all’interno del paese, e i tagliaboschi approfittarono delle tensioni per portarsi via tonnellate di legna: dai dieci ai venti camion al giorno attraversavano le strade del paese, carichi di pini e querce. Dal 2008 ad oggi, a Cherán sono stati abbattuti 28mila ettari di foresta, l’80% della superficie totale.
Quando il crimine organizzato, molto presente nello Stato di Michoacán, si rese conto degli introiti che potevano derivare dal commercio clandestino di legna, volle la loro fetta di torta. Secondo uno studio della Banca Mondiale dal titolo “Giustizia per i boschi. Migliorando gli sforzi della giustizia penale per combattere il disboscamento illegale”, a livello planetario la vendita illegale di legna genera introiti per una cifra compresa tra i 10mila e i 15mila milioni di dollari. In Messico, la maggior parte dei proventi derivati dal commercio della legna finisce nelle casse del crimine organizzato. Parte di questo denaro – continua lo studio – viene utilizzato per pagare funzionari corrotti a tutti i livelli di governo: locale, statale e federale. Le leggi di protezione delle risorse boschive in Messico non vengono applicate proprio a causa della corruzione, ma anche dei problemi di coordinazione tra le autorità, e la probabilità che un depredatore forestale messicano venga sanzionato è una delle più basse del mondo: si parla di meno di un arresto ogni cento tagliaboschi clandestini.
Gli uomini del crimine organizzato dello Stato di Michoacán, appartenti al cartello denominato La Familia Michoacana, hanno saputo approfittare di questa situazione di impunità generalizzata: si misero all’entrata del bosco di Cherán chiedendo 1000 pesos (circa 60 euro) ai tagliaboschi per ogni camion che usciva, offrendo in cambio protezione nei confronti della popolazione locale.
La tensione tra i tagliaboschi e gli abitanti di Cherán era infatti palpabile. “Vivevamo il disboscamento delle nostre foreste per opera dei talamontes, ma non avevamo capito che dietro di loro c’era il crimine organizzato. Poi, visto che la situazione continuava e che si trattava di una vera e propria devastazione, abbiamo iniziato a pensare che non potevano essere talamontes comuni. Così abbiamo indagato e siamo arrivati alla conclusione che dietro di loro c’era gente armata, appartenente a un cartello del narcotraffico”, racconta a Narcomafie José Merced Velázquez, abitante di Cherán.
Il conflitto esplose quando i tagliaboschi iniziarono ad abbattere gli alberi secolari che proteggevano la sorgente che rifornisce d’acqua tutto il paese: il 15 aprile 2011, alle 6 del mattino, un gruppo di donne e giovani bloccarono con pali e pietre tre camion dei tagliaboschi. Fermarono cinque di loro per consegnarli alle autorità e, nello scontro con il crimine organizzato, una persona ricevette una pallottola nella testa. La popolazione riuscì comunque a cacciare i criminali, che nella fuga incendiarono il bosco.
“L’insurrezione è iniziata perché i criminali toccarono la nostra più grande sorgente d’acqua – spiega José Merced Velázquez -. A quel punto abbiamo reagito: per noi purépecha il bosco e l’acqua sono sacri, perché sono le fonti della nostra vita. Consideriamo la natura come parte di noi stessi, quando toccarono la zona dove si genera l’acqua ci siamo sentiti come se ci avessero attaccato. Abbiamo reagito come gli essere viventi che siamo, in relazione all’acqua e all’aria. Da tempo parlavamo di fare qualcosa per fermare i talamontes, ma l’insurrezione si è data in modo spontaneo: la gente iniziò a bloccare i camion che passavano per il paese, inizialmente furono le donne, poi ci siamo aggiunti tutti”. “Di fronte all’umiliazione che viveva la nostra comunità e all’inerzia da parte del governo, che non agiva contro i talamontes malgrado le nostre denunce, noi donne abbiamo dato vita alla lotta per la difesa dei boschi, della nostra casa che è Cherán. La storia della nostra comunità è frequente in Messico, dove i popoli nativi vengono spoliati delle loro risorse naturali e dei luoghi sacri che i nostri avi ci hanno lasciati in eredità, e che noi vogliamo lasciare ai nostri figli e nipoti”, racconta Alicia. Anche Angelina ricorda il coraggio che la mosse in quei giorni: “Non eravamo più liberi di uscire in strada ed avevamo paura per i nostri bambini. Abbiamo iniziato a parlare fra noi per decidere il da farsi, e un giorno abbiamo preso in mano i bastoni. Ora siamo liberi e non abbiamo più paura”.
Il 15 aprile 2011, dopo aver cacciato la criminalità organizzata, la gente di Cherán ha costruito barricate alle tre entrate del paese, per impedire il passaggio dei tagliaboschi. José Merced Velázquez racconta come la comunità si è organizzata per difendersi: “Ancora oggi c’è una barricata ad ogni entrata, siamo pronti per qualsiasi eventualità. La nostra priorità è assicurare la sicurezza di tutti, e lo abbiamo fatto creando posti di vigilanza in tutto il paese, che poi abbiamo chiamato “falò”: sono fuochi intorno ai quali ci riuniamo riscaldati dalla legna”. Sono stati creati centinaia di falò in tutta Cherán, per permettere a chi vigilava le strade di ripararsi dal freddo pungente della montagna michoacana. I falò si sono presto convertiti in luoghi di aggregazione e interscambio, in una comunità che nella sua coesione ha trovato la forza per lottare contro un potere che a molti sembra invincibile.
Il fuoco ha inoltre un significato particolare nella cultura purépecha, come spiega a Narcomafie Jurhamuti José Velázquez Morales: “In lingua purépecha si parla di khurikhua k’erhi, il grande fuoco, elemento creatore e generatore di vita, luce, pace e dialogo. Per noi il fuoco ha una grande importanza, è sempre presente nelle feste e nei rituali, ad esempio in quelli relativi alla medicina tradizionale o nei matrimoni. Parhankua è il falò, il fuoco sul piano mondano, intorno a cui possiamo dialogare e condividere, addirittura imparare: quando c’è stata l’insurrezione i bambini avevano smesso di andare a scuola perché la criminalità organizzata minacciava di attaccarla, e i maestri e le maestre hanno deciso di fare lezione intorno ai falò. Intorno alla parhankua i bambini imparano anche la nostra lingua purépecha, che si sta perdendo, o attività che sono state assorbite nel processo di acculturazione occidentale, come fare legna o preparare pietanze locali. Il fuoco ha quindi per noi un significato storico-sociale molto importante, e oggi acquista una valenza in più: lo abbiamo ripreso nel nostro processo di organizzazione contro la criminalità, lo utilizziamo per proteggerci, per tenerci allerta e caldi. È diventato la cellula del nostro movimento, intorno al falò parliamo della nostra lotta e di ciò che succede nelle nostre famiglie”.
Oggi la criminalità organizzata e i camion pieni di legna non passano più per il paese, ma continuano ad operare – seppur in modo ridotto – nei boschi che la circondano. La comunità organizza ronde per proteggere la foresta dai tagliaboschi, e sono diciotto gli abitanti di Cherán morti negli scontri con il crimine organizzato. L’ultimo episodio si è registrato il 18 aprile scorso, quando un gruppo di venti persone impegnate in lavori di riforestazione fu vittima di un’imboscata: due persone vennero ferite e altre due trovarono la morte. Nello stesso luogo, il mese precedente, undici persone furono sequestrate.
Il commercio illegale di legna non è l’unico affare che la criminalità organizzata sta facendo alle spalle degli abitanti di Cherán: una volta abbattuti gli alberi, la zona viene bruciata e si converte in terreno adatto alla coltivazione. Non a caso, negli ultimi anni sono spuntati impresari che chiedono l’utilizzo dei terreni per seminare piante di avocado, coltivazione molto comune nello Stato di Michoacán. La gente di Cherán sostiene che gli “impresari dell’avocado” lavorano in accordo con il crimine organizzato, e criticano la scelta di coltivare questa pianta perché ha bisogno di molta acqua, non è adatta al tipo di suolo ed è destinata all’esportazione invece che al consumo interno.
Un altro momento importante nella storia di Cherán fu il novembre 2011. Si sarebbero dovute tenere le elezioni locali, ma la comunità decise di non lasciare entrare i candidati alla presidenza municipale: “Abbiamo deciso di non celebrare le elezioni perché il sistema elettorale messicano propizia la corruzione e fa vincere chi in realtà ha perso. Il presidente municipale di allora era colluso con la criminalità organizzata, che lo proteggeva in cambio della sua connivenza: abbiamo denunciato i criminali alle autorità molte volte, ma non hanno mai fatto nulla”, denucia José Merced Velázquez. Inoltre, secondo la gente di Cherán i partiti promuovono l’individualismo e dividono la comunità, creando tensioni tra persone di differente affiliazione politica. E il crimine organizzato si approfitta di queste divisioni per portare avanti il disboscamento clandestino della foresta, che solo una popolazione coesa può riuscire a fermare.
Una volta cacciati i partiti, gli abitanti di Cherán decisero di governarsi “per usi e costumi”: elessero le loro autorità attraverso il sistema assembleario con cui i loro avi gestivano la cosa pubblica prima della conquista da parte degli spagnoli, che imposero lo Stato-nazione e la democrazia rappresentativa.
Per evitare che i partiti politici collusi con la criminalità organizzata tentassero di organizzare altre elezioni, invalidando il processo politico portato avanti dagli abitanti di Cherán, questi chiesero al Tribunal Electoral del Poder Judicial de la Federación (l’organo federale incaricato di risolvere le controversie in materia elettorale) di indire un referendum per chiedere alla popolazione se volesse governarsi “per usi e costumi” o attraverso il sistema costituzionale.
La legge non contempla esplicitamente il diritto dei popoli indigeni a governarsi secondo il loro sistema tradizionale, ma il Messico ha ratificato dei trattati internazionali che regolano la materia. In particolare, la Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Popoli Indigeni e il Convegno 169 dell’OIL, che stabilisce diritti in capo ai popoli nativi sul proprio territorio e sulla propria forma di governo, prevedendo il rispetto, da parte dello Stato e le sue istituzioni, dei costumi e del diritto consuetudinario indigeno. “La normativa internazionale ci ha permesso di appellarci al Tribunal Electoral del Poder Judicial de la Federación, e la sua sentenza fu una sopresa per tutti – prosegue José Merced Velázquez -. Noi indigeni messicani siamo abituati a vedere le istituzioni sempre dalla parte dei potenti, ma questa volta il tribunale ci diede ragione, stabilendo il nostro diritto ad eleggere le autorità attraverso il sistema “per usi e costumi”. Al referendum solo otto persone hanno votato a favore del sistema partitario, e le elezioni secondo il sistema tradizionale purépecha si sono svolte il 22 gennaio. Fu una festa, il riconoscimento legale delle nostre autorità è stata una grande vittoria: ora abbiamo un governo collettivo, non individuale e personale, e le istituzioni statali e federali devono rivolgersi a tutte le dodici persone che ne fanno parte. Abbiamo anche cacciato l’esercito e la polizia imposta dal governo, e ora noi stessi eleggiamo chi si occupa di garantire la sicurezza nel paese”. Non più i corrotti poliziotti messicani, spesso collusi con la criminalità organizzata, ma persone scelte dagli abitanti di Cherán, in base alla loro affidabilità e rigore morale.
La storia di Cherán ha inspirato altre comunità messicane a cui la criminalità organizzata non permette una vita serena. Lo scorso giugno la gente di Huamuxtitlán, nello Stato di Guerrero, ha liberato diciassette persone sequestrate dal cartello de Los Zetas, e ha poi fermato sei dei suoi integranti. Il sindaco e le altre autorità di Huamuxtitlán, assicurano gli abitanti, sono collusi con la criminalità organizzata.
Articolo pubblicato sul mensile Narcomafie nel giugno 2012.