“La Patagonia non si tocca”. Il Cile ferma la centrale Enel
(Foto: Diario La Tercera)
La mega centrale idroelettrica HidroAysén non si farà. Martedì scorso il governo del Cile ha bloccato la costruzione della megacentrale idroelettrica HidroAysén, che un consorzio formato da Enel-Endesa (51%) e Colbún (49%) aveva in progetto nella Patagonia cilena. “Abbiamo deciso di accogliere i ricorsi presentati dalla comunità e togliere effetto alla Licenza Ambientale”, ha dichiarato Pablo Badenier, Ministro dell’Ambiente del governo di Michelle Bachelet (Partido Socialista de Chile).
La decisione è stata presa a causa della mancanza di un piano di reinsediamento della popolazione che vive nella zona inondata dal bacino della diga – 5900 ettari di terra -, e di misure di compensazione dei danni causati. La costruzione della centrale idroelettrica, che secondo le stime avrebbe previsto un investimento di più di sette miliardi di euro per erigere cinque dighe sui fiumi Baker e Pascua, avrebbe comportato lo spianamento di montagne, l’inondazione e cementificazione dell’area e un via vai continuo di camion, in una zona vergine agli estremi confini meridionali del pianeta, una porzione di terra quasi disabitata e incorniciata dalle Ande innevate e da ghiacciai.
Una regione ricca di laghi e fiumi su cui Enel, che per il 30% appartiene allo Stato italiano, gode del diritto di sfruttamento. Infatti, una legge approvata dal dittatore Agusto Pinochet nel 1981 stabilisce che l’acqua è un bene pubblico su cui i privati possono, però, avere diritto di sfruttamento. Grazie a questa norma del periodo fascista, nel momento in cui ha comprato il 92% della spagnola Endesa, Enel è entrata in possesso del 96% dei fiumi della Patagonia (una delle maggiori riserve di acqua dolce del mondo) e dell’80% di tutto il Cile.
Dalla Patagonia sarebbero partiti i 6500 tralicci che avrebbero portato i 2750 MW di energia creati da HidroAysén – il 20% del totale prodotto in Cile – fino al nord di questo paese lungo, schiacciato tra la cordillera andina e l’oceano Pacifico. Un viaggio che avrebbe attraversato otto regioni, dodici aree protette e 2300 chilometri, per alimentare le miniere d’oro e di rame di cui il Cile è il maggior esportatore mondiale.
Aumentare la propria capacità di produzione di energia elettrica sembra un imperativo per un paese che nel 2012 è cresciuto del 5,6%. “Il Cile ha bisogno di energia e che per dargliela bisogna produrla, e se non lo facciamo con le centrali idroelettriche dovremo allora farlo con le centrali termoelettriche, cioè bruciando idrocarburi”, ha dichiarato Daniel Fernandez, vicepresidente esecutivo di HidroAysén, in un’intervista pubblicata nel volume Killing Patagonia della ONG italiana Re:Common. “Il Cile ha bisogno di duplicare la propria produzione di energia, perché ha bisogno di crescere; e l’energia alternativa, l’energia verde, non è in grado di offrire l’apporto necessario: la sua produzione è ancora troppo limitata”. Non è quindi forse casuale che il giorno prima della decisione su HidroAysén veniva approvata la costruzione di una centrale termoelettrica nel centro del paese, in mancanza di uno studio di impatto ambientale e malgrado l’opposizione della popolazione e del sindaco.
Poche ore dopo l’annuncio di cancellazione del progetto, gli attivisti del Consejo de Defensa de la Patagonia Chilena, una rete di cui fanno parte una settantina di organizzazioni di tutto il mondo, festeggiavano in Plaza Italia, nel centro della capitale Santiago. “Festeggiamo il trionfo di tutte le persone e di tutte le organizzazioni che in questi sette anni hanno lottato contro il nefasto progetto HidroAysén”, hanno dichiarato.
In realtà, la decisione dei ministri cileni non era più di tanto inattesa, visto che Michelle Bachelet si era dichiarata contraria al progetto durante la campagna elettorale che lo scorso marzo ha portato alla sua elezione, e che la stessa Endesa Cile a fine 2013 aveva tolto HidroAysén dalla lista dei progetti prioritari.
La centrale idroelettrica aveva anche molti sostenitori, non solo tra gli industriali cileni e stranieri, ma pure tra la popolazione della Patagonia, affascinata dalle promesse di progresso che arrivavano dal governo. 17mila dei circa 80mila abitanti della Patagonia cilena vive sotto la soglia di povertà, a migliaia di chilometri dall’opulenza del centro della capitale Santiago. Numerose sono state le denunce di “acquisto” di consenso da parte del consorzio costruttore, che avrebbe ripartito denaro tra gli abitanti locali, pratica riconosciuta anche dalla Corte dei Conti regionale.
Articolo pubblicato sul Secolo XIX il 14 giugno 2014.