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Xiomara, la donna che sfida la mala dell’Honduras

Posti di blocco della polizia e dei militari e ancora posti di blocco. Presidiano le strade di quello che l’ONU considera il paese più violento del mondo, e che domenica prossima è stato convocato alle elezioni presidenziali, legislative e amministrative.
L’Honduras si affaccia alle urne con una situazione disastrosa: il 70% della popolazione vive in condizione di povertà e il 40% è disoccupata. La connivenza tra le autorità e il crimine organizzato è pervasiva e la militarizzazione della società, in nome della lotta al crimine organizzato, ha in realtà portato ad un incremento degli omicidi e della presenza del narcotraffico, che approfitta dell’impunità che tocca l’80% dei delitti. Secondo la statunitense Dea (Drug Enforcement Administracion), dall’Honduras transita più dell’80% della droga in viaggio verso gli Stati Uniti e nel 2013 le forze dell’ordine hanno sequestrato solo due tonnellate di cocaina. Inoltre, il viceministro della Difesa Carlos Roberto Funes ha recentemente affermato di sospettare che nel paese si trovi “El Chapo” Guzmán, capo dei capi del narcotraffico messicano.
In vista delle elezioni di domenica prossima è stata ulteriormente incrementata la presenza militare, forte dei nuovi mille effettivi della Polizia Militare di Ordine Pubblico. La formazione del corpo d’élite è stata promossa nell’agosto del 2013 da Juan Orlando Hernández, candidato presidenziale del Partito Nazionale, il partito conservatore al governo, mentre la candidata del partito Libre (Libertà e Rifondazione) Xiomara Castro ha promesso di togliere i militari dalle strade.
Secondo l’ultimo sondaggio Cid-Gallup “donna Xiomara”, che ha raccolto le simpatie dei movimenti e delle classi meno abbienti honduregne, si trova a parimerito con il nazionalista Orlando Hernández. Se la Castro parla di un “socialismo democratico” capace di assicurare garanzie agli investitori, il candidato nazionalista promette la creazione di migliaia di posti di lavoro nelle maquiladoras (industrie di assemblaggio in cui non sono previsti i diritti sindacali), il miglioramento della situazione abitativa delle classi meno abbienti e l’ampliamento delle coltivazioni di canna da zucchero e palma africana.
Il programma del nazionalista strizza l’occhio all’oligarchia honduregna, un gruppo di persone che possiede il 40% della ricchezza del paese, concentrata soprattutto nell’industria maquiladora e nelle grandi coltivazioni di prodotti da esportazione come la palma africana. “In Honduras sono dieci le famiglie che prendono le decisioni. Controllano industrie, banche, media, giustizia e governo”, ci spiega Miriam Miranda, dell’organizzazione per la difesa dei diritti del popolo afrodiscendente OFRANEH. I padroni dell’Honduras hanno cognomi mediorientali: Facussé, Canahuati, Kafie, e finanziano il sistema che dal 1902 garantisce l’alternanza tra il partito nazionalista e quello liberale.
Di conseguenza, con la sua candidatura la Castro sfida non solo il maschilismo honduregno, ma anche il centenario bipartitismo dell’unico paese centroamericano che durante la Guerra Fredda non ha avuto una guerriglia capace di sfidare l’imperialismo statunitense. I nordamericani hanno sempre fatto il bello e cattivo tempo in quella che si considera la Repubblica delle Banane per eccellenza, scegliendo presidenti-fantoccio per permettere a imprese come Chiquita di esercitare un governo di fatto nei territori in cui operava.
Quando l’ex presidente Manuel Zelaya, che era stato eletto con i voti di destra, iniziò a mettere i bastoni fra le ruote alla stessa oligarchia di cui fa parte la sua famiglia, ci fu un colpo di stato. Era il giugno del 2009 e il popolo honduregno era stato chiamato a un referendum per decidere se convocare un’assemblea costituente. Oggi è la stessa moglie di Zelaya, Xiomara Castro, a presentarsi alle elezioni proponendo ancora una volta la formazione di una costituente.
“Nel 2009 Xiomara Castro era con noi nelle strade a manifestare contro il golpe e appoggio la sua candidatura, anche se non stimo alcuni membri del suo partito e mi riservo la facoltà di critica nei confronti del suo governo”, ci racconta Tomas Gómez Membreño dell’organizzazione indigena COPINH. “Inoltre temo che ci sia una frode elettorale, è difficile pensare che l’oligarchia la lasci governare”.
Così, questo bel paese di montagne e lunghe spiagge che nel suo piccolo territorio racchiude una grande varietà di culture e sapori, si prepara alle elezioni. La polizia ha nel cassetto un piano di contingenza per rispondere alla possibilità di conflitti durante le consultazioni, e i settecento osservatori internazionali sono pronti a vigilare su un processo elettorale che potrebbe rappresentare una svolta storica per il paese latinoamericano.

Reportage pubblicato il 23.11.2013 sul Secolo XIX.

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