Ayotzinapa, ancora senza giustizia
Più che una conferenza stampa sembra un atto politico. Sotto un tendone, davanti alla cattedrale di Città del Messico, c’è un tavolo in cui sono piazzati dei microfoni. Davanti al tavolo i giornalisti, e intorno a loro decine di persone. Si accalcano sulle transenne, la maggior parte giovani, intonano cori e mostrano cartelli che chiedono verità e giustizia per gli i 43 studenti di Ayotzinapa, che il 26 settembre 2014 sono stati sequestrati dalle autorità colluse con il cartello criminale Guerreros Unidos. Ancora non si sa nulla dei ragazzi, e non è stata fatta giustizia per le sei persone che sono state uccise durante l’attacco.
La gente applaude quando sotto il tendone appaiono i genitori degli studenti, accompagnati dal loro avvocato. Sembrano emozionati. Hanno convocato la conferenza stampa per dare un resoconto del loro incontro con il presidente Enrique Peña Nieto, appena concluso. Il legale Vidulfo Rosales Sierra dice che il presidente non si è impegnato a rispettare nessuna delle otto proposte che i genitori dei ragazzi gli avevano presentato, riguardanti l’attenzione alle vittime e l’inchiesta giudiziaria sul caso.
Prende la parola Marisa Mendoza, moglie di Julio César Mondragón, assassinato durante l’attacco del 26 settembre 2014 ad Iguala. Il cadavere di Julio César, che aveva 22 anni e un figlio di pochi mesi, è stato trovato senza volto. Sul suo corpo era rimasto solo il cranio sanguinante. La procura non ha menzionato i segni di tortura presenti sul cadavere ed ha affermato che era stata “la fauna del luogo” ad asportargli la pelle.
Nessuno fiata intorno alle parole ferme di Marisa. Denuncia gli intoppi burocratici che hanno causato ritardati nell’esumazione del corpo del marito, che dovrebbe essere analizzato da un gruppo di esperti forensi indipendenti, e assicura che continuerà a chiedere giustizia per Julio César e le altre vittime dell’attacco di Iguala. “Non sei sola”, gridano all’unisono i presenti.
“Non ci sentiamo soli, ci sentiamo coccolati da voi”, afferma Maria de Jesús Tlatempa Bello, madre dello studente desaparecido José Eduardo Bartolo Tlatempa. Chiede al governo di togliersi la maschera ed essere trasparente, di scegliere se stare con la popolazione o con il crimine organizzato. “Cammineremo sotto il sole o sotto la pioggia”, conclude, invitando tutti coloro che hanno un famigliare desaparecido a unirsi il giorno dopo alla manifestazione per l’anniversario dell’attacco di Iguala.
E pioveva a Città del Messico il 26 settembre scorso sul corteo, su centinaia di migliaia di persone che hanno camminato per chilometri, fino a raggiungere e riempire la piazza centrale della metropoli. Si temeva che la vicenda fosse caduta nel dimenticatoio, invece la popolazione messicana ha continuato a dimostrare la sua solidarietà alle famiglie degli studenti di Ayotzinapa, e a quelle dei circa 27mila desaparecidos che si sono registrati in Messico dal 2006 ad oggi. Da quando il governo ha lanciato la “guerra contro il narcotraffico”, che ha causato una lunga serie di violazioni di diritti umani, soprattutto ai danni di attivisti sociali e giornalisti. Un conflitto che ha trasformato il Messico in un territorio doloroso per la sua popolazione, e in un bengodi per i cartelli criminali.
Ayotzinapa ha portato all’attenzione internazionale il problema della violenza e della sparizione forzata in Messico, ha permesso di aprire un importante spazio di riflessione sulla connivenza tra autorità e cartelli criminali, sulla corruzione ed impunità esistenti nel paese.
E alle famiglie di altri desaparecidos ha dato la forza di prendere in mano picconi e pale per andare a cercare i loro cari nelle campagne che circondano le città; organizzati in gruppi scavano e trovano cadaveri, spesso a decine. Solamente ad Iguala, dove si registrano 150 desaparecidos, sono state trovate 60 fosse comuni con un totale di 104 corpi. Solo 6 sono stati identificati. Di chi sono questi cadaveri? Chi è in attesa del ritorno di queste persone? Perché sono state fatte sparire?
Nel gennaio scorso, la Procura Generale della Repubblica (PGR) annunciò quella che definì “la verità storica” sul caso Ayotzinapa. La notte del 26 settembre 2014 la Polizia Municipale avrebbe sequestrato i 43 studenti per consegnarli al cartello criminale Guerreros Unidos, che li avrebbe portati nella discarica di Cocula per ucciderli e cremarli. Le ceneri sarebbero state gettate nel fiume San Juan all’interno di una borsa. Questa ricostruzione venne confermata dalle analisi dei resti contenuti nella sacca, che avrebbero permesso di identificare gli studenti Alexander Mora e Jhosivani Guerrero de la Cruz.
La versione è basata sulle dichiarazioni di alcune fra le 111 persone arrestate per l’attacco del 26 settembre, e non esistono prove scientifiche che la sostengano. Quattro testimoni chiave, integranti del cartello Guerreros Unidos, al momento di rilasciare la dichiarazione erano ubriachi e presentavano lividi che successivamente sono stati riconosciuti come segni di tortura. Patricio Reyes Landa, alias El Pato, ha dichiarato che sono stati provocati dagli agenti che lo hanno arrestato. Da parte sua il leader dei Guerreros Unidos Gildardo López Astudillo, alias El Gil, non ha mai confermato la versione della procura riguardante l’incenerimento dei corpi dei ragazzi nella discarica di Cocula.
Al contrario, la ricostruzione è stata messa in dubbio da indagini indipendenti di esperti forensi, che affermano non esistano prove del fatto che i resti di Alexander si trovassero nella borsa del fiume San Juan, e che l’accertamento dell’identità di Jhosivani è una probabilità “bassa in termini statistici”.
Non torna neanche la dinamica dell’attacco. “Nelle dichiarazione degli imputati abbiamo riscontrato delle incoerenze. Presentano quattro versioni differenti su quello che sarebbe successo, quattro scenari diversi, ed esistono contraddizioni interne nella descrizione di ogni scenario”, afferma Carlos Beristain, uno degli esperti che sono stati scelti dalla Commissione Interamericana di Diritti Umani (CIDH) per portare avanti un’inchiesta indipendente sul caso Ayotzinapa. “Ad esempio, nelle dichiarazioni che dipingono lo scenario della discarica di Cocula ci sono incongruenze forti su come sarebbero stati trasportati, dove e come sarebbero stati uccisi, e su altri elementi”. Carlos Beristain aggiunge che l’analisi delle condizioni oggettive della discarica porta a una conclusione certa: gli studenti non possono essere stati bruciati a Cocula. Se i 43 corpi fossero davvero stati cremati nella discarica, la vegetazione intorno avrebbe dovuto bruciarsi. Ma del rogo non c’era alcuna traccia, né dei resti dei giovani.
Gli esperti della CIDH hanno anche dimostrato che Polizia Federale e l’esercito hanno preso parte all’aggressione e che esisteva un quinto autobus, che non compare nella ricostruzione ufficiale. Si tratta di uno dei pullman che i ragazzi avevano occupato ad Iguala, che probabilmente all’insaputa dei giovani veniva utilizzato per trasportare droga e potrebbe rappresentare il movente dell’attacco. Tutti elementi di cui le autorità erano a conoscenza, ma che sono stati omessi ed occultati.
Anna stende i panni davanti a uno dei dormitori della scuola normale rurale Raúl Isidro Burgos di Ayotzinapa. I locali che la formano sono edifici bassi e colorati, circondati da campi ed orti. È un campus dove si studia, si mangia e si dorme, e dal settembre 2014 non è occupato solo dai 500 alunni, ma anche dai genitori dei ragazzi scomparsi e alcuni attivisti solidali. Da qui, dopo giorno e senza sosta, organizzano le loro attività: manifestazioni, sit-in, incontri pubblici, assemblee, carovane.
Non c’è un muro bianco nella scuola di Ayotzinapa, istituto magistrale che forma i ragazzi a lavorare come maestri in zone povere e rurali. Uno dietro l’altro si susseguono murales con visi di rivoluzionari latinoamericani e frasi che parlano di giustizia sociale. Le scuole normali rurali in Messico sono 15 ed è noto l’impegno politico dei suoi studenti. In quella di Ayotzinapa, ad esempio, hanno studiato Lucio Cabañas Barrientos e Genaro Vázquez Rojas, leader contadini che impulsarono la lotta armata negli anni ’60 e ’70.
Le tensioni fra lo stato messicano e gli studenti di Ayotzinapa hanno quindi radici lontane, più antiche dell’arrivo nella regione dei cartelli criminali, e non sono certo terminate dopo l’attacco di Iguala. L’ultimo scontro tra forze dell’ordine e studenti della normale si è verificato il 12 novembre scorso, quando dopo aver sequestrato una cisterna di gas gli studenti sono stati attaccati dalla polizia, che ha sparato pallottole e lacrimogeni contro di loro. Il saldo dell’aggressione è stato di 20 feriti –anche gravemente- e 10 arrestati.
Alcuni tra i ragazzi che sono finiti in carcere o all’ospedale erano sopravvissuti dell’attacco di Iguala del 26 settembre 2014. Guardandoli in viso, ascoltando le loro parole, si capisce perché si sentono in guerra con lo stato. Uno stato incarnato nella figura del presidente Enrique Peña Nieto, che accusano di essere responsabile per l’omicidio e la sparizione dei loro compagni.
“Il movimento chiede la rinuncia del presidente perché è considerato responsabile della violenza di stato, e quindi di quello che è successo ai ragazzi”, spiega Roman Hernández del Centro di Diritti Umani Tlachinollan, che accompagna le famiglie dei ragazzi desaparecidos di Ayotzinapa. “Ad ogni modo gli studenti di Ayotzinapa affermano che il problema non è Peña Nieto in sé, ma la struttura su cui si sostiene il sistema politico, che permette a una figura come la sua di stare al potere”.