L’ONU perde l’occasione per depenalizzare le droghe
“La guerra alla droga è una lotta contro i poveri”, si legge a caratteri cubitali su un muro di New York, vicino al metro Central Avenue. Durante questa settimana, a poche fermate da lì, l’ONU ha perso l’opportunità di mettere fine a questa guerra che dura da più di 50 anni.
La Sessione Speciale dell’Assemblea delle Nazioni Unite (UNGASS) sulle droghe, che si è chiusa giovedì a New York, non ha stabilito il cambiamento di rotta che alcuni auspicavano rispetto all’approccio adottato nel 1961. Non è stata ascoltata la richiesta di alcuni governi e organizzazioni non governative di mettere fine alla guerra contro le droghe e di regolarizzare il loro mercato, ma è stata recepita la proposta di iniziare a considerare il tema delle sostanze considerate come stupefacenti come un problema di salute pubblica, invece che di sicurezza nazionale.
“In termini concreti il documento che è uscito dalla UNGASS non è un gran passo avanti, ma propone un approccio meno punitivo che rappresenta una rottura con le politiche del passato”, afferma in intervista Ted Lewis della ONG Global Exchange, all’uscita del Palazzo di Vetro.
Le richieste di depenalizzazione sono motivate dal fatto che questa risolverebbe, secondo i suoi sostenitori, vari problemi legati alla salute pubblica, e che in alcuni paesi la guerra contro il narcotraffico ha provocato un massacro della popolazione civile. Nella regione che va dalla Colombia al Messico, passando per il Centroamerica, decenni di politiche di criminalizzazione delle droghe non hanno fatto che arricchire le organizzazioni criminali, che nel traffico di droga trovano una delle loro principali fonti di entrata. Secondo uno studio del Senato messicano, se il consumo della cannabis con fini ricreativi venisse legalizzato, le entrate della criminalità organizzata scenderebbero del 26%.
“Non è una guerra contro la droga, è una guerra contro di noi”, dichiara Maria Herrera, un’anziana messicana. La donna è arrivata alla sede dell’ONU con una carovana che ha percorso, quasi interamente in autobus, i 5700 km che separano l’Honduras da New York per chiedere la fine della guerra alla droga. Un conflitto senza eserciti in cui Maria Herrera ha perso 4 figli, tutti desaparecidos, usciti un giorno in macchina e mai più tornati.
Anche negli Stati Uniti, il paese che incarcera più persone al mondo, la guerra alla droga miete le sue vittime. Più di 2 milioni di persone si trovano nei penitenziari nordamericani, l’80% condannate per reati, generalmente non violenti, che hanno a che fare con la droga. La popolazione afroamericana viene reclusa 6 volte in più rispetto a quella bianca, e il problema è diventato così grave che l’incarcerazione massiva si è trasformato in uno dei temi della campagna elettorale.
“Dovremmo utilizzare al meglio la flessibilità della Convenzione per implementarla in un modo più bilanciato, umano ed effettivo, assicurando che la nostra politica sulla droga rispetti interamente i diritti umani e sia davvero orientata alla salute”, ha affermato il ministro Andrea Orlando di fronte alla UNGASS.
Le parole di Orlando sembrano parafrasare la dichiarazione che è uscita dal vertice delle Nazioni Unite, ed esprimono una posizione vicina a quella del governo statunitense, che nel 2014 affermò la necessità di interpretare con flessibilità i trattati internazionali in materia di droghe.
Ma “flessibilità” è una parola tiepida e vaga, che all’interno delle Nazioni Unite si scontra con l’intransigenza di alcuni paesi, soprattutto asiatici, in termini di politiche sulla droga. In Indonesia, ad esempio, trafficare droga può portare alla fucilazione, e il documento prodotto dalla UNGASS non fa nessun riferimento all’abolizione della pena di morte per reati connessi alla droga.
“Fra i paesi che si oppongono a una riforma integrale delle politiche sulle droghe orientate alla depenalizzazione si trovano Indonesia, Russia, Cina e Arabia Saudita”, afferma in intervista Laura Krasovitzky dell’organizzazione statunitense Drug Policy Alliance. “Ci sono anche paesi che pubblicamente appoggiano le riforme, ma tradiscono sottobanco le loro promesse. Come gli Stati Uniti, che negli ultimi 40 anni ha speso più di 1 trilione di dollari in politiche proibizioniste, mentre alcuni suoi Stati si trovano in conflitto con le leggi federali perché hanno regolarizzato la produzione, distribuzione e consumo di cannabis”.
L’ultima UNGASS si era celebrata nel 1998 e aveva stabilito l’utopica meta di liberare il mondo dalla droga entro il 2008. Ma il traffico delle sostanze considerate stupefacenti non si è fermato, e la stessa ONU nel rapporto mondiale del 2015 afferma che il loro consumo è stabile. Le Nazioni Unite stimano che circa 246 milioni di persone in tutto il mondo –il 5% di coloro che hanno tra i 15 e i 64 anni- utilizzano droghe etichettate come “illecite”, e sono circa 27 milioni i consumatori che fanno un uso problematico di queste sostanze.
Articolo pubblicato da Il Fatto Quotidiano il 24.04.2016.