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Una carovana di madri in Messico. Cercano i figli, migranti scomparsi

Da quindici anni, grazie al Movimiento Migrante Mesoamericano, donne da Guatemala, Honduras, El Salvador e Nicaragua percorrono tutto il Paese per ritrovare i loro congiunti, desaparecidos mentre tentavano di raggiungere gli Usa.

Le detenute del carcere di Tapachula, nel Sud del Messico, guardano con attenzione le foto plastificate che le 38 donne della quindicesima Caravana de madres centroamericanas de Migrantes desaparecidos hanno appoggiato a terra. Mostrano i volti dei loro figli, giovani del Guatemala, Honduras, El Salvador e Nicaragua che sono partiti per gli Stati Uniti e improvvisamente, mentre attraversavano il Messico, hanno smesso di comunicare con la famiglia. Sono scomparsi, desaparecidos.

Ana Enamorado del Movimiento Migrante Mesoamericano (MMM), organizzazione che ogni anno coordina la carovana, prende in mano il microfono. “Se qualcuna di voi li ha visti la preghiamo di aiutarci. Qualsiasi elemento può essere utile per trovarli”, dice alle detenute che si muovono nel patio del carcere, osservando le foto dei giovani spariti. “E se per caso avete perso contatto con i vostri famigliari, potete lasciarci i loro dati. Li possiamo cercare e mettervi in comunicazione con loro”, aggiunge. È il lavoro del MMM: cerca i migranti centroamericani spariti in Messico, facendo da cerniera tra loro e le famiglie. Rubén Figueroa, un attivista del Movimiento, inizia la ricerca prima della partenza della carovana. Riceve le denunce di scomparsa delle famiglie centroamericane e attraversa tutto il Messico per cercarli, seguendo le loro tracce a partire dall’ultima chiamata che hanno fatto alle famiglie o dall’ultimo invio di denaro che hanno ricevuto. Spesso la ricerca di Figueroa è fruttuosa: in 15 anni, il MMM ha trovato 315 migranti che avevano perso contatto con le loro famiglie in Guatemala, Honduras, El Salvador e Nicaragua. Una volta localizzato il migrante, il MMM invita un suo parente, generalmente la madre, a partecipare alla carovana perché lo possa incontrare, occupandosi della trafila burocratica per avere permessi e visti che per le famiglie centroamericane sarebbe difficile ottenere.

Foto: Orsetta Bellani

Molte famiglie di migranti vivono con la preoccupazione che i figli siano stati uccisi dalle organizzazioni criminali messicane -che operano, in molti casi, con l’appoggio o la connivenza delle autorità-, che siano stati obbligati a lavorare per loro o che siano stati vittime di una rete di tratta di persone. Vivono tormentate ma con la speranza che siano ancora vivi, e aspettano una loro chiamata, giorno dopo giorno. Sanno che ci sono ragioni che possono portare i migranti a smettere di mandare notizie alle loro famiglie, anche quando sono sani e salvi. Ad esempio, se durante il viaggio è stato rubato loro il portafogli in cui tenevano i numeri telefonici, o se la famiglia ha cambiato numero o indirizzo. 

“Ci sono vari motivi per cui non vogliono che la madre sappia dove si trovano. In certi casi possono provare vergogna, ad esempio se sono stati vittime di violenza sessuale o se hanno commesso un atto illecito e sono stati arrestati”, afferma Hilda Luz Rivera, una donna originaria del Salvador. Viaggia con la carovana in cerca di suo figlio René Wilmaris Ramírez Rivera, che sedici anni fa le ha telefonato dalla frontiera fra Messico e Stati Uniti e non ha mai più dato notizie: “A una madre non importa cos’hanno fatto, anche se commettono errori, una madre sempre perdona”. Le donne della XV Carovana mostrano casa per casa le foto dei loro figli spariti, nei quartieri che si trovano lungo i binari del treno merci chiamato “La Bestia”, sul cui tetto viaggiano i migranti. Sperano che la gente del posto li abbia visti passare, si chiedono se qualcuno dei loro figli è rimasto a vivere lì.

“Magari ho anche una nuora e dei nipoti, e vivono tutti a Huixtla (una cittadina a 40 chilometri da Tapachula, ndr)”, dice Anita Celaya del Salvador: da diciassette anni percorre la geografia messicana cercando suo figlio Rafael Alberto Rolín. Le sue compagne di carovana ridono alla battuta: sono risate amare, però, quelle che accompagnano le madri centroamericane mentre camminano per le strade di Huixtla, bussando di porta in porta, con le foto dei loro cari sempre appese al collo. Non se le tolgono neanche per mangiare. Non portano solo le foto dei propri figli, ma anche dei figli di altre donne che non sono potute partire con loro. Vivono la ricerca dei desaparecidos come un atto collettivo: si cercano i parenti di tutte e lo si fa tutte insieme. Le madri centroamericane espongono le foto dei loro figli nelle carceri, negli alberghi per migranti (strutture gestite dalla Chiesa che offrono loro un letto e un pasto caldo) e nelle piazze delle città. 

“Siamo a conoscenza dei desaparecidos, ma vedere le loro foto fa un altro effetto” dice un giovane osservando le immagini con cui le donne della carovana hanno coperto la piazza di Tapachula. I numeri sono impressionanti: tra 80mila e 120mila sono i migranti spariti in Messico, una cifra che non compare nelle statistiche presentate dal governo, che conteggia solo i desaparecidos di nazionalità messicana. I numeri colpiscono, ma vedere le immagini è un’altra cosa: giovani normali, jeans e felpa, in posa davanti al cellulare dei loro genitori. Poi, da un momento all’altro, spariti nel nulla.

Anita Celaya del Salvador cerca suo figlio Rafael Alberto da 17 anni. Foto: Orsetta Bellani

Tapachula è un crocevia fondamentale per i migranti che viaggiano verso gli Stati Uniti. Si trova lungo la frontiera meridionale del Messico, a un passo dal Guatemala. Da una ventina d’anni lungo questi 956 chilometri di frontiera, resa a tratti frastagliata per la presenza di montagne e fiumi, si realizzano operazioni di polizia per contenere l’incessante flusso migratorio, che proviene dal Centro America ma anche da Cuba, Haiti e da alcuni Paesi africani.

Nel maggio scorso, il presidente Usa Donald Trump ha sentenziato che il governo messicano non fa abbastanza per contenere la migrazione e ha minacciato di sanzionarlo con l’introduzione di dazi. La risposta del presidente messicano Andrés Manuel López Obrador è stata inviare alla frontiera con il Guatemala 6.500 agenti della Guardia Nazionale, un nuovo corpo di polizia formato soprattutto da militari, che sono stati dispiegati a Tapachula e lungo tutta la regione frontaliera. Il muro di Trump non è tra Stati Uniti e Messico, ma al confine con il Guatemala: il muro è la Guardia Nazionale e il Messico è un abisso in cui i migranti spariscono. “Potrei rimanere qui tutta la notte se sapessi che qualcuno ci darà qualche indizio, anche piccolo, per trovare mio figlio o i figli delle altre”, dice l’honduregna Ana Turcios, seduta sul bordo di un’aiuola nella piazza di Tapachula. È delusa perché finora nessun passante ha dato informazioni per trovare i giovani spariti, ma sa che la carovana si trova solo all’inizio di un viaggio di circa 5mila chilometri. 

Foto: Orsetta Bellani

È iniziato il 15 novembre alla frontiera meridionale del Messico, in un territorio di selva tropicale, cascate, boschi e lagune cristalline, ed è arrivato fino alla desertica frontiera con gli Stati Uniti, per poi ridiscendere a Sud. È stata accompagnata anche dal collettivo italiano Carovane Migranti (carovanemigranti.org), nato nel 2014 ispirandosi proprio a loro, che con altre organizzazioni coordina una carovana europea per i diritti dei migranti a cui invita le madri centroamericane. 

La XV Carovana di madri centroamericane di migranti desaparecidos ha attraversato 14 Stati messicani, e quando il suo viaggio si è concluso, il 3 dicembre scorso, cinque donne avevano potuto riabbracciare i propri cari. Alcune non avevano loro notizie da più di 30 anni, come la salvadoregna Lilián Esperanza Alvarado. Durante la guerra civile degli anni Ottanta, per proteggerli, Lilián aveva mandato i suoi due bambini a vivere in Messico con il padre, perdendone nel tempo le tracce. L’hanno ricontattata quattro anni fa via Facebook e li ha potuti riabbracciare alla fine di novembre nello Stato di Nuevo León, quando la carovana ha raggiunto il confine tra Messico e Stati Uniti. Erlinda Ramírez non aveva notizie di suo figlio da meno tempo. Erano sette anni che non ne sapeva nulla, e l’ha trovato nel carcere di Coatzacoalcos (Stato di Veracruz): “Sono sicura che, come è apparso mio figlio, appariranno anche i figli delle mie compagne di carovana, che continuano a vivere questo flagello”, ha detto ai giornalisti uscendo dalla struttura. 

Articolo pubblicato da Altreconomia nel dicembre 2019

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