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Un medico napoletano in Chiapas. Recensione di “Eternamente Straniero”

Quando scese dal furgone, Cippi Martinelli si trovò circondato dalla notte e dalla nebbia. Non sapeva dove si trovasse esattamente, ma subito gli piacquero gli sguardi che intravedeva dietro i passamontagna. Presto scoprì di trovarsi ad Oventic, che alcuni anni dopo diventò uno dei 5 Caracoles zapatisti. 

Era il 1996 e il medico napoletano si era unito ad una brigata internazionalista in Chiapas. Da tempo era stanco del suo lavoro al Policlinico di Napoli e in territorio zapatista trovò quello che cercava: rebeldía e una relazione umana con i colleghi e i pazienti che in Italia non riusciva a trovare. 

In Chiapas, Cippi Martinelli ha imparato che bisogna capire chi è la persona e come la malattia la sta colpendo, che è necessario curare la persona, non la malattia. Nel corso del tempo e grazie al suo lavoro instancabile, Cippi si è guadagnato la fiducia (almeno in parte) degli zapatisti. Lavorava come medico nella clinica di Oventic, visitava pazienti in altre zone liberate dall’insurrezione indigena del 1994 e dava corsi di formazione ai giovani zapatisti scelti dalle loro comunità per studiare come “promotores de salud”.

Un giorno la mayora Ana María, comandanta della zona Altos de Chiapas a cui aveva tolto una brutta ciste “senza neanche un bisbiglio”, chiese di parlargli. “Doc, potresti aiutarci a mettere giù un piano sanitario?”, gli chiese la giovane donna – jeans, maglietta e lunghi capelli neri, bassina e un po’ grassottella – che presto divenne sua amica. Ovviamente Cippi accettò, attirato dal “fascino della costruzione dell’impossibile”. 

E grazie ai suoi consigli nacque il primo programma sanitario zapatista. Un sistema autonomo e ribelle che ha portato cure in comunità che non avevano mai visto un medico. Cliniche che forniscono un servizio spesso considerato superiore a quello degli ospedali pubblici, al punto che molti pazienti sono persone non zapatiste – Cippi racconta di aver curato anche un paramilitare che aveva attaccato i suoi compagni.

Nei momenti in cui non c’era molto lavoro, Cippi scriveva un diario personale, che decise di far leggere al suo amico Claudio Albertani. “Ho letto il manoscritto di Martinelli tutto d’un fiato, senza poter staccare lo sguardo dallo schermo del computer, perché questo è, fra l’altro, un libro d’avventure, l’aggiornamento di un romanzo salgariano”, scrive Albertani nella prefazione. Per questo la Biblioteca Franco Serantini ha deciso di pubblicare alcune pagine del diario del medico napoletano (Cippi Martinelli, Eternamente straniero. Un medico napoletano nella Selva Lacandona, BFS Edizioni, Pisa 2018, pp. 104, € 12.00).

Si tratta di un libro di testimonianza in cui troviamo le grandezze e limiti dello zapatismo, non a partire da un’analisi teorica ma dal suo vivere e lavorare sul campo. Cippi non è un uomo che si vanta della sua esperienza, non presume la sua conoscenza del mondo zapatista o i suoi contatti con la Comandancia General. Ma nel suo libro decide di raccontarsi e raccontare un mondo, una società ribelle, a cui ha deciso di dedicare buona parte della sua vita e che non per questo vede come una società perfetta; è forse impossibile idealizzare qualcosa che si conosce così da vicino.

Cippi racconta le sue sensazioni, riflessioni e dei momenti, anche difficili, vissuti in territorio zapatista. Scrive di quando ha pensato di lasciare tutto, narra di tensioni tra membri dell’EZLN, dell’uscita di alcuni di loro dall’organizzazione, di un ammanco di 9 mila euro nelle casse della clinica. Parla delle riunioni interminabili e della difficoltà di traduzione dall’italiano e spagnolo alle lingue indigene. Spiega come si può organizzare un corso di formazione per giovani medici con tubi di gomma, bambole, lattine e buste di plastica, e di come un’operazione chirurgica si possa fare nella penombra e con pochi strumenti.
Racconta di viaggi in camioneta per le strade sterrate del Chiapas, di lunghe camminate in sentieri pieni di fango, spesso al buio, con la paura di essere attaccati dall’esercito o dai gruppi paramilitari. Di quando gli hanno sparato contro e della tensione continua di vivere in un paese in cui gli stranieri non possono svolgere una militanza politica: della preoccupazione di essere fermato dalla polizia ed espulso dal Messico, o ancor peggio ucciso, o fatto sparire. Cippi Martinelli racconta dei suoi incontri con altri stranieri, anche italiani, che militavano nella parte militare o civile dell’organizzazione, come educatori nelle scuole autonome o volontari nelle cliniche. Parla della sua relazione con zapatisti e zapatiste, dell’amicizia, delle risate e degli scherzi, dei momenti di incomprensione.

Scrive della pioggia insistente – che protegge dagli attacchi militari per via del fango che rende le strade impraticabili –, del sole inclemente e dell’afa della Selva Lacandona, del freddo e della nebbia della regione Altos de Chiapas, del caffè bollente ma a volte un po’ scialbo e dei tamales preparati con il mais fresco.

Verrebbe da dire che quello di Cippi è un libro scritto da una persona interna all’organizzazione, ma lui racconta che non è così. “Quello che mi è sempre pesato, e continua a pesarmi era ed è essere considerato eternamente uno straniero dai compagni zapatisti”, scrive Cippi Martinelli. “Nonostante tutto il tempo passato qui, nonostante tutte le situazioni vissute insieme, i rischi della guerra, i momenti buoni e quelli difficili, io ero sempre, in fin dei conti, uno straniero, e come tale mai completamente affidabile, salvo rare occasioni e sempre comunque da pochissime persone”.

Recensione pubblicata da Arivista nel marzo 2019.

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