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Quei migranti che non temono il muro

Quando scoprì che Donald Trump aveva vinto le elezioni, Fabio Ceballos Loya non rimase poi tanto deluso, non ve- deva enormi differenze con la sua avversaria. Fabio ha 29 anni, insegna alle scuole elementari ed è cresciuto a Ciudad Juárez, città messicana al confine con gli Stati Uniti, uno dei centri urbani più violenti del mondo, famosa per essere stata capitale mondiale del femminicidio. 

Il giovane è cresciuto guardando continuamente al di là della frontiera, attraverso il deserto. Con i suoi amici parlava spanglish – una “lingua” che mescola lo spagnolo all’inglese -, ascoltava musica statunitense e seguiva lo sport nordamericano. Già da bambino, Fabio andava spesso con la sua famiglia a fare shopping nei centri commerciali di El Paso, la città texana che si trova a pochi chilometri dalla sua.

Quando era adolescente, andava negli Stati Uniti per fare dei lavoretti estivi. Ogni volta che valicava la frontiera, Fabio percepiva razzismo nei suoi confronti: «Ciò che più mi spaventa della vittoria di Trump è l’aumento della discriminazione etnica negli Stati Uniti, ora i razzisti sentono di avere il benestare del presidente».

Nei decenni passati, Ciudad Juaréz ha ricevuto migliaia di migranti provenienti da altre parti del Messico e dal Centroamerica a causa della bonanza economica generata dal trasferimento di grandi imprese di assemblaggio statunitensi nella città frontaliera. Una delle promesse elettorali di Trump che potrebbe avere un impatto forte sul Messico è proprio la rinegoziazione del Trattato di libero commercio tra i Paesi del Nord America, il Nafta, che ha spinto le imprese multinazionali a trasferire la loro produzione all’estero.

«Trump è riuscito a vendere il “mito” che il Messico ha rubato lavoro agli Stati Uniti, ma in realtà nessun paese guadagna da questo trattato. Perdono i lavoratori e i consumatori, e guadagnano le grandi corporazioni. Sono accordi scritti e firmati apposta per loro», afferma Laura Carlsen del Center of International Policy. L’analista politica ricorda come, proprio per questo motivo, la rinegoziazione del Nafta è da sempre una richiesta anche delle organizzazioni sociali, mossa però da motivazioni molto diverse da quelle di Trump.

«Sono partito ora dall’Honduras per arrivare prima che Trump diventi presidente», afferma Jairo. Seduto sui binari del treno nei pressi di Atitilaquia nello Stato di Hidalgo, il giovane honduregno aspetta di poter ripartire insieme ai suoi due amici sul tetto de “La bestia”, il treno merci che i migranti cen- troamericani utilizzano per attraversare il Messico e raggiungere gli Stati Uniti.

La frontiera meridionale degli Stati Uniti, infatti, non viene attraversata solo da messicani, ma, in questi anni, soprattutto da persone provenienti dai piccoli e disastrati Paesi centroamericani – Guatemala, El Salvador, Honduras, Nicaragua. Per loro, la parte più pericolosa del viaggio è transitare per il Messico: durante il cammino possono essere derubati, violentati e in alcuni casi assassinati dalle organizzazioni criminali o dalla polizia messicana. Secondo la Red de Documentación de las organizaciones defensoras de migrantes nel 2015 le autorità messicane sono state responsabili del 40 per cento dei crimini commessi contro i migranti che transitano nel Paese.

Jairo non crede che il muro che Trump ha promesso di costruire alla frontiera con il Messico potrà fermare la migrazione. Il giovane ha lasciato San Juan Dugurubuti, un villaggio di pescatori affacciato sul mar dei Caraibi, per cercare fortuna negli Stati Uniti e non rischiare di trovarsi coinvolto nella situazione in cui si trovano molti ragazzi in Honduras: essere minacciati di morte dalle maras o costretti a lavorare per loro. Le Nazioni Unite stimano che l’Honduras sia il paese più violento del mondo e, secondo Jairo, finché ci saranno povertà e insicurezza niente potrà convincere le persone a smettere di migrare.

Trump ha promesso che sarà il Messico a pagare la costruzione del muro, ma una barriera metallica tra i due Paesi esiste già. È stata costruita a partire dagli anni 90, durante l’amministrazione di Bill Clinton, e attualmente copre circa un terzo dei più di 3mila chilometri di frontiera. Per il resto, a fermare i migranti ci pensano il deserto e gli agenti della Border Patrol, che durante la presidenza Obama sono raddoppiati, arrivando a 42mila unità. A dire il vero, poi, negli anni successivi alla crisi economica, i flussi in entrata dal Messico sono diminuiti e il numero di immigrati indocumentados residente negli States è calato di circa un milione di unità.

Secondo il quotidiano messicano El Universal, il muro di cemento che Trump vuole costruire nella frontiera meridionale degli Stati Uniti costerebbe 25 miliardi di dollari, e dovrebbero essere utilizzati 40mila lavoratori l’anno per completare l’opera in quattro anni. Per questo motivo, malgrado altri presidenti avessero accarezzato l’idea, la costruzione di un muro tra gli Stati Uniti e il Messico è sempre rimasta nel libro dei sogni. Per altri, continua a essere un incubo.

Angela Cruz non ha paura del muro. È convinta che presto la sua famiglia in Honduras riuscirà a mandarle i 4500 dollari che le servono per pagare un trafficante di persone, coyote si chiamano, affinché accompagni lei e suo figlio di sei anni per i 1200 chilometri che separano San Luis Potosi da Houston, in Texas. Angela è partita tre mesi fa da Tegucigalpa, la capitale dell’Honduras, dove una mara chiedeva il pizzo a sua madre che gestisce un banchetto al mercato locale.

Angela Cruz nella Casa del Migrante di San Luis Potosí. Foto: Orsetta Bellani

La ragazza denunciò l’accaduto e scoprì che il suo fidanzato faceva parte della mara avversaria, che la minacciò e picchiò. Decise di trasferirsi un periodo in Guatemala, ma le minacce continuavano. Così un giorno Angela prese suo figlio e uscì di casa, come se andasse al mercato. Invece salì su un autobus, e da lì su un altro ancora, fino a quando arrivò a San Luis Potosi, quasi incredula per il fatto di non essere mai stata fermata dalla polizia migratoria. Afferma che è stato l’amore per suo figlio a permetterle di andare avanti.

Angela è arrivata con il suo bambino nella Casa del migrante di San Luis Potosí un centro gestito dalla Caritas che ospita e appoggia i migranti in transito per il Paese, e ha deciso di fermarsi qui qualche mese a lavorare come volontaria, come faceva quando viveva in Honduras in un’altra struttura della Caritas.

«A Trump non conviene deportare i migranti, sono loro che fanno ricco il Paese», afferma Angela quando le chiediamo se crede che il presidente eletto manterrà la promessa di espellere gli 11 milioni di migranti che si stima lavorino irregolarmente negli Usa.

C’è invece chi prende sul serio le minacce del presidente eletto. «Dobbiamo prepararci a quello che succederà, sappiamo che presto arriverà molta più gente nella nostra casa», afferma Geraldine Estrada Rivera, coordinatrice della Casa del migrante di San Luis Potosí. «Quasi il 90 per cento delle persone che riceviamo sono centroamericane, ma sappiamo che arriverà un gran numero di messicani cacciati dagli Stati Uniti. Normalmente vengono deportati in autobus e lasciati qui; arrivano nella nostra casa per poi muoversi verso i loro luoghi di origine».

Estrada Rivera è preoccupata per la possibilità che il governo degli Stati Uniti faccia pressione sul governo messicano affinché inasprisca la sua politica migratoria, cosa che è avvenuta anche durante Obama, al punto che attualmente il Messico deporta più migranti centroamericani che gli stessi Stati Uniti. Il Paese latinoamericano si è convertito in un setaccio dalle cui strette maglie sempre più difficilmente si riesce a passare.

«Non credo che Trump farà tutto quello che ha promesso, è il presidente ma non il padrone degli Stati Uniti, ci sono poteri superiori a lui. Le grandi imprese non gli permetteranno di fare cose che agli Stati Uniti non convengono, come deportare i migranti irregolari», afferma Martha Sánchez Soler dell’organizzazione non governativa Movimiento migrante mesoamericano. «Gli Stati Uniti aprono il cancello quando la loro economia è in espansione e ha bisogno di manodopera, e lo richiudono quando sono in recessione. In quel momento inizia la politica di deportazioni».

Secondo Sánchez Soler, se gli Stati Uniti investissero in aiuti allo sviluppo tutti i soldi che, attraverso il programma di cooperazione militare Plan Mérida, mandano al governo messicano per fermare la migrazione centroamericana attraverso la militarizzazione, si potrebbero eliminare le cause della migrazione.

Ma la verità è che probabilmente Trump non metterà mano alla grande deportazione: tutti sanno che ci sono settori dell’economia Usa, ad esempio l’agricoltura californiana, che si paralizzerebbero di colpo.

Articolo pubblicato dal settimanale Left il 17.12.2016

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