Colombia, un paese “minato” e senza pace
Il figlio di María Eligia Zuluaga Gómez aveva dodici anni quando è saltato su una mina antiuomo. Era un giorno festivo, la scuola era chiusa, e stava andando a portare da mangiare al padre che lavorava in una fattoria. “Vivo laggiù, ma l’esplosione fu così forte che la sentii”, ricorda María Eligia. “Grazie a Dio è rimasto illeso”.
Era il 2003 ed erano tempi difficili per Carmen de Viboral, un municipio dell’Antioquia, il dipartimento più “minato” della Colombia. Da anni nella regione erano presenti i guerriglieri marxisti, soprattutto delle Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia (Farc). Si tratta di un gruppo armato sorto negli anni ’60 per proteggere i contadini dalla violenza dei latifondisti, che sono stati poi accusati di violazioni ai diritti umani e di relazioni con il narcotraffico.
A Carmen de Viboral c’erano tensioni tra la guerriglia e la popolazione, ma la situazione precipitò dopo il 2000 quando a combattere i marxisti arrivarono i paramilitari, milizie create dai grandi proprietari terrieri per difendere i propri interessi. I gruppi paramilitari sono stati formati con l’appoggio dell’esercito e dei cartelli criminali, e negli anni ’90 si “federarono” sotto il nome di Autodefensas Unidas de Colombia (AUC). Sono un gruppo che di dedica al narcotraffico e lavorano affianco dell’esercito. Secondo dati diffusi dalla procura, avrebbe commesso più di mille massacri in tutto il paese e ucciso circa 25mila persone.
“I problemi veri arrivarono con i paramilitari. La popolazione si trovò ‘tra la spada e la parete’, come diciamo qui”, ricorda María Eligia. “I paramilitari hanno ucciso tanta gente innocente; però le mine, quelle anche la guerriglia le metteva”.
Dal 1990 ad oggi le mine antiuomo hanno ucciso 11,225 colombiani e, secondo il rapporto Landmine Monitor, nel 2014 la Colombia è stato il secondo paese al mondo dopo l’Afghanistan per numero di incidenti.
Nel settembre scorso i giornali di tutto il mondo hanno pubblicato una fotografia storica. Sorridenti e vestiti di bianco, il presidente colombiano Juan Manuel Santos e il leader delle Farc, Timoleón Jiménez, si stringono la mano davanti al presidente cubano Raúl Castro.
È stato il momento più significativo dei negoziati di pace che si stanno svolgendo all’Avana tra il governo e la guerriglia marxista, iniziati nel novembre 2012, e che potrebbero mettere fine a un conflitto durato mezzo secolo e durante il quale sono morte circa 600mila persone. Più di 6 milioni sono state cacciate dalle loro case, dato fa della Colombia il secondo paese al mondo per numero di sfollati dopo la Siria.
Le parti hanno annunciato che l’accordo verrà firmato entro il 23 marzo prossimo, ma solo quella stretta di mano è riuscita a convincere i più scettici che il processo potrebbe andare a buon fine.
I dubbi riguardanti il postconflitto sono tanti. Cosa faranno i guerriglieri una volta abbandonate le armi? In un paese in cui il 30,6% della popolazione vive sotto la soglia di povertà, non faranno che ingrossare le file dei gruppi delinquenziali se le istituzioni non saranno in grado di offrire loro un’alternativa occupazionale. Proprio come quando, nel 2005, dal processo di desmobilizzazione delle AUC sono nate le Bacrim (Bande Criminali), gruppi che operano in modo del tutto simile ai paramilitari.
“La firma chiuderà una porta del conflitto colombiano, che però ne ha molte che rimangono aperte. Ad esempio, che ne facciamo del ‘parastato’ [connivenza tra istituzioni e paramilitari] e del crimine organizzato?”, osserva Fernando Quijano, direttore dell’organizzazione non governativa Corporación para la Paz y el Desarrollo Social (Corpades).
In Colombia si smina in mezzo al conflitto. Da una parte si tolgono le mine e si negozia un accordo di pace, dall’altra si continua a combattere.
Il 7 febbraio 2015 gli attori impegnati nei negoziati dell’Avana hanno annunciato l’inizio di un programma di sminamento del territorio -indipendente da quello portato avanti da Halo Trust-, che rappresenta il primo risultato concreto tra i punti accordati finora. Lo sminamento è iniziato a Orejón, non lontano da Carmen de Viboral, dove per la prima volta militari e guerriglieri stanno lavorando insieme.
“Le Farc mettono mine per frenare l’avanzata dei soldati e non è vero che vengono piazzate intorno alle scuole”, spiega Leonardo Ilich Rojas, ex comandante delle Farc. “Prima si collocavano mine grandi, ora è stata ridotta la quantità di esplosivo in modo che la persona non muoia. La decisione risponde a una considerazione umanitaria, ma soprattutto militare: per l’esercito un ferito è più caro che un morto e frena la sua avanzata, perché un ferito deve essere trasportato da due soldati”.
In realtà, sulle mine si muore ancora, malgrado quelle delle Farc siano piccoli artefatti artigianali che costano poco più di 4 euro. Secondo la rivista IDOC Internazionale, si registrano due morti per ogni sopravvissuto e il 75% dei miracolati finisce per dover amputare un arto.
Nel 1997, con la firma della Convenzione di Ottawa, il governo colombiano si è impegnato a smettere di seminare mine antiuomo, a distruggere quelle in suo possesso e ad assistere le vittime, che però lamentano la mancanza di un appoggio da parte delle istituzioni. Con il trattato il governo aveva inoltre garantito di terminare lo sminamento entro il 2012, e ha chiesto poi una proroga al 2021. Non sarà facile rispettare l’impegno: secondo le stime di alcuni esperti, per sminare tutto il paese ci potrebbero volere 70 anni.
Articolo pubblicato in Eastwest nel gennaio 2016.