La responsabilità dello Stato messicano per i fatti di Ayotzinapa. Intervista a Román Hernández del Centro di Diritti Umani Tlachinollan
Le manifestazioni della società civile messicana a seguito della sparizione dei 43 studenti ad Iguala hanno fatto conoscere all’opinione pubblica internazionale la brutalità della violenza in Messico e la corruzione della sua classe politica, ma anche la capacità di mobilitazione di un popolo stanco. A Città del Messico abbiamo incontrato Román Hernández Rivas del Centro di Diritti Umani Tlachinollan, che lavora a tu per tu con gli studenti di Ayotzinapa e con le famiglie dei ragazzi scomparsi.
Perché la guerra al narcotraffico promossa dal governo messicano nel 2006, invece di sconfiggere la criminalità organizzata, ha causato violazioni ai diritti umani?
Nel 2000, quando il Partido Revolucionario Institucional (PRI) perse la presidenza della repubblica ed entrò Vicente Fox del Partido de Acción Nacional (PAN), s’interruppe l’egemonia che il PRI aveva da circa 80 anni. Non si trattava solo di egemonia politica, ma di controllo della produzione e distribuzione di droga: negli anni ’70 lo stato messicano produceva eroina e oppio che vendeva agli Stati Uniti. Esisteva un’industria statale della droga, è un fatto documentato. Queste coltivazioni non vennero mai sradicate e con gli anni lo stato perse il dominio sulla produzione della droga, lasciando spazio ai cartelli criminali.
Quando il PAN arrivò al governo si crearono divisioni tra i gruppi del narco nella lotta per il controllo territoriale. La situazione peggiorò nel 2006, quando il governo annunciò la guerra al narcotraffico, e l’esercito iniziò ad operare frontalmente come attore armato all’interno dello stesso territorio. Non capiamo esattamente quale sia il gioco dell’esercito, se sta appoggiando uno dei cartelli, se nel tentativo di indebolire uno finisce per rinforzare un altro, o se sta attaccando tutti allo stesso modo.
La situazione di crisi attuale che vive il Messico, di violazione dei diritti umani commessa da servitori dello stato, si aggravò ulteriormente nel 2008 con la Iniziativa Mérida, un piano di sicurezza progettato dagli Stati Uniti, che si concretizza nella militarizzazione del paese. La società civile si trova al centro di questa disputa per il controllo territoriale tra cartelli del narco, e tra di essi e l’esercito, e cerca di difendere il territorio conteso.
Perché lo stato decide di far sparire le persone invece di ucciderle?
Non possiamo dire perché lo fa, ma possiamo parlare delle conseguenze generate dalla desaparición forzada. Quando una persona scompare i suoi cari sentono ansia, paura e incertezza, non sanno cosa sta succedendo. L’omicidio e la desaparición forzada – che per definizione viene operata da servitori dello stato – si toccano nel punto che rappresenta la frontiera fra la delinquenza organizzata e lo stato messicano, come attori che sono impregnati l’uno dell’altro.
Perché considerate il presidente Enrique Peña Nieto responsabile dei fatti di Iguala? Il crimine è stato commesso dalla Polizia Municipale, non potrebbe essere stato un ordine del sindaco di Iguala, José Luis Abarca, senza l’intervento del governo federale?
Il vincolo tra il narco e lo stato non inizia ad Iguala il 26 settembre. Il Messico si può definire un “narcostato” perché la criminalità organizzata ha tanto potere da poter fare eleggere i sindaci, iniettando soldi alle campagne elettorali. Lo stato non è intervenuto per rispondere alle denunce che indicavano alcuni sindaci come parte del crimine organizzato, la sua responsabilità è quindi per omissione e Peña Nieto è responsabile essendo il titolare dell’esecutivo federale. Ma la delinquenza organizzata non è iniziata con lui, lo stato ha creato le condizioni perché fatti come quello di Iguala potessero accadere. La criminalità organizzata è un’inerzia che lo stato sta trascinando da più di 40 anni, che è prodotto delle sue azioni e omissioni.
Con un panorama come questo, le famiglie degli studenti di Ayotzinapa credono che lo stato possa fare giustizia?
Le rivendicazioni dei genitori dei ragazzi sono cambiate dal 26 settembre ad oggi. All’inizio pretendevano che il governo dello stato di Guerrero riportasse a casa i loro figli, poi chiesero l’intervento del governo federale. In questo momento non hanno più fiducia in nessuno e sono convinti che Peña Nieto stia solo cercando di “ripulire” la sua immagine, per continuare a girare il mondo svendendo agli investitori stranieri le risorse naturali del paese.
Il movimento che si è formato in solidarietà con Ayotzinapa chiede la rinuncia di Peña Nieto. Che cosa vi aspettate da un’eventuale uscita di scena del presidente? Considerate che la sua rinuncia potrebbe portare a un cambio reale nel paese?
Il movimento chiede la rinuncia del presidente perché è considerato responsabile della violenza di stato, e quindi di quello che è successo ai ragazzi. Ad ogni modo gli studenti di Ayotzinapa affermano che il problema non è Peña Nieto in sé, ma la struttura su cui si sostiene il sistema politico, che permette a una figura come la sua di stare al potere. Gli studenti stanno cercando reali garanzie di non ripetizione di quello che è successo, e non le possono chiedere allo stato messicano visto che lui stesso commette violazioni ai diritti umani. Per questo la popolazione ha occupato una ventina di municipi nello stato di Guerrero, dove si sono formati consigli popolari con l’idea di generare un processo di costruzione politica dal basso, che stabilisca spazi donde si possano prendere decisioni collettivamente e fuori dalla politica partitica. È un esperimento che prende ad esempio le Giunte di Buon Governo presenti in territorio zapatista.
Intervista pubblicata da Narcomafie nell’aprile 2015.
Versión en español: http://www.sobreamericalatina.com/?p=2135