Intervista a Italia Méndez: “Ad Atenco il corpo della donna usato come arma repressiva”
Nel 2008, undici donne che sono state vittime di torture sessuali durante l’operativo di Atenco hanno denunciato lo stato messicano presso il Sistema Interamericano di Diritti Umani, che potrebbe emettere una sentenza obbligatoria. Hanno inoltre promosso la campagna “Rompiendo el silencio”, iniziata nel maggio 2014, per far conoscere i casi di altre donne torturate sessualmente dallo stato messicano. Italia Méndez è fra loro, si trovava ad Atenco il 3 e 4 maggio 2006.
Quale messaggio ha voluto dare lo stato con la violenza di Atenco?
Il 2006 fu un anno politicamente convulso in Messico. Due partiti importanti si disputavano il potere, mentre a livello di organizzazioni di base si stava creando qualcosa di interessante intorno alla Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona dell’Ejército Zapatista de Liberación Nacional (EZLN). C’erano riunioni in tutto il paese, si respirava una grande effervescenza politica. Attraverso la repressione e la brutalità, lo stato cercò di bloccare i processi organizzativi che stavano nascendo.
Quali sono state le circostanze della tua detenzione?
La polizia entrò la mattina molto presto nella casa in cui mi trovavo, che venne perquisita senza mandato. Mi arrestarono in modo arbitrario, non avevo commesso nessun delitto e non c’era nessun ordine di arresto contro di me. Mi interrogarono e, dopo avermi picchiata e insultata, mi caricarono su un autobus per portarmi al carcere Santiaguito di Toluca.
Cosa successe durante il viaggio verso il carcere?
Nel tragitto avvenne ogni tipo di abuso. Nell’autobus c’erano pile di persone sdraiate nel corridoio e la polizia camminava su di loro. Mi depositarono come fossi un sacco nell’ultima fila, sopra altre persone. Lì iniziarono i soffocamenti, le percosse, le minacce di morte, mi abbassarono i pantaloni fino alle caviglie e mi alzarono la maglia fino alla testa, e rimasi nuda durante tutto il viaggio. Introdussero vari strumenti nella mia vagina, non ho idea di cosa fossero esattamente. Mentre mi torturavano mi minacciavano di morte, con un linguaggio totalmente misogeno, ed ero costretta ad ascoltare come venivano torturate le altre persone. Il viaggio da Atenco al carcere dovrebbe durare 2 ore, ma il nostro durò da 4 a 6 ore; a volte fermavano l’autobus, ci facevano scendere e ci contavano, e ogni volta eravamo meno. Dicevano di aver ucciso qualcuno, o che era morto a causa delle percosse. Siamo arrivati in carcere feriti, ma non c’erano dottori. Sono stata dentro 15 giorni e uscii pagando la cauzione, ma alcune di noi ci rimasero 2 anni e mezzo.
Raccontami della vostra battaglia giudiziaria.
Inizialmente abbiamo sporto denuncia presso una procura messicana specializzata in diritti delle donne, ma non abbiamo ottenuto nessuna risposta, e abbiamo deciso di rivolgerci al Sistema Interamericano di Diritti Umani proprio a causa dell’impunità che abbiamo trovato in Messico. Avremmo potuto presentare una denuncia anonima ma abbiamo deciso di non farlo; carichiamo il peso dello stigma della violenza sessuale, del fatto la nostra sessualità sia stata esibita pubblicamente, ma pensiamo che mostrare il nostro volto dia più forza alla nostra lotta.
Il 14 marzo 2013, presso la Commissione Interamericana di Diritti Umani, avete presentato la vostra posizione davanti ad alcuni rappresentanti dello stato. Com’è andata l’udienza?
In quel momento lo stato ammise i fatti ma poi non ha firmato nessun impegno, e ha promesso di offrire scuse che non sono mai arrivate. Una cosa sono le dichiarazioni, un’altra è la volontà politica di chiarire gli avvenimenti e prendere misure affinché non si ripetano. Per questo abbiamo deciso di non accettare la soluzione amichevole della controversia che lo stato messicano ci offriva. Vogliamo un accesso integrale alla giustizia, non scuse extraofficiali. Lo stato deve rispondere davanti a noi, alle nostre famiglie e all’intera società per il fatto di essere stato capace di utilizzare il corpo della donna come strategia repressiva.
Articolo pubblicato dal quotidiano Il Manifesto il 16.09.2014.